Pubblicato su Sole24Ore – Nt Lavoro – il 02/02/2024
Il dipendente che, in congedo di malattia, presta attività lavorativa presso l’esercizio commerciale della coniuge è passibile di licenziamento, ove la sua condotta integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia quando la condotta lasci presumere l’inesistenza della malattia, sia quando può pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 2516/2024 del 26 gennaio.
Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che, durante il congedo di malattia della durata di una settimana, ha prestato servizio per due giorni presso l’esercizio commerciale del coniuge, come emerso dalle risultanze dell’attività investigativa disposta dalla società datrice di lavoro.
La Corte d’appello, confermando la pronuncia del Tribunale, ha rigettato l’impugnazione del ricorrente, rilevando la potenziale idoneità dell’attività svolta a ritardare la sua guarigione, poiché ripetuta nel periodo di malattia, e dunque fondante l’addebito disciplinare posto alla base della sanzione espulsiva.
La Corte di cassazione conferma la pronuncia dei giudici di merito, rilevando in primo luogo che in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’articolo 2119 Codice civile. Pertanto, la Corte ricorda che l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, può essere censurata in sede di legittimità solo «nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale».
A tal proposito, la Suprema corte ribadisce il proprio consolidato orientamento per cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cassazione 26496/2018, 10416/2017).
Per i giudici, dunque, appare perfettamente conforme al principio sopra esposto il percorso logico giuridico seguito dalla Corte di merito che, dopo aver qualificato l’attività lavorativa svolta a favore di terzi durante il periodo di malattia come potenzialmente idonea a ritardare la guarigione del dipendente, ha ritenuto tale potenzialità pregiudizievole e contrastante con i doveri generali incombenti sul lavoratore.