Al contratto di lavoro a tempo pieno non sono applicabili i limiti posti allo ius variandi nei contratti part-time. In tal caso, il diritto può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolari procedure.
Cassazione Civile sez. lav., ordinanza n. 31349 del 03 novembre 2021.
Nel caso di specie, una lavoratrice che osservava un orario di lavoro c.d. “spezzato” (dalle ore 8 alle 12,25 e dalle ore 14 alle 17,30) in ragione di una serie di patologie croniche di cui soffriva, veniva assegnata ad un reparto diverso. A tale nuova assegnazione conseguiva una modifica dell’orario di lavoro, dovendo la dipendente osservare in tale reparto un orario di lavoro continuato (dalle 14.00 alle 22.00).
La lavoratrice agiva pertanto in giudizio chiedendo l’assegnazione alle mansioni in precedenza espletate con applicazione del precedente orario di lavoro.
La Corte d’Appello accoglieva la domanda della lavoratrice per violazione dei principi di buona fede e correttezza – come previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. – sul rilievo che “al momento della variazione dell’orario di lavoro non sussistevano le esigenze organizzative allegate dalla società, poiché la dismissione delle lavorazioni a giornata alle quali era addetta la ricorrente, era risultato non essere ancora in atto né imminente; ed a tale convincimento neanche ostava il dato relativo alla dismissione della linea di produzione nelle more del giudizio, posto che la domanda era intesa essenzialmente alla conservazione dell’orario di lavoro in precedenza osservato”.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro.
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e cassava la decisione della Corte d’Appello.
In particolare, nell’ordinanza in esame la Suprema Corte dapprima ricorda come “l’espressione orario di lavoro ha un significato pluridirezionale in quanto è indicativo sia della quantità della prestazione lavorativa dovuta, sia della distribuzione di tale prestazione in un determinato arco temporale, integrando altresì parametro per la remunerazione della retribuzione; sotto altro versante adempie alla primaria funzione di delimitare l’entità massima della prestazione che può essere richiesta al lavoratore”.
E così, “nella materia in questione il potere direttivo della parte datoriale può esercitarsi nel rispetto dei limiti legali di durata della prestazione lavorativa, come pure di quelli che condizionano la possibilità di determinare la collocazione della prestazione nella unità di tempo; va inoltre rimarcato che il profilo quantitativo dell’orario di lavoro inerisce all’oggetto del contratto e non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro, al quale è invece riconosciuto il potere distributivo, salvo i limiti legali e contrattuali”.
In relazione al caso di specie, la Corte di Cassazione rileva come “il contratto intercorso fra le parti era un contratto a tempo pieno, in relazione al quale deve essere disattesa ogni possibile estensione dei limiti posti allo ius variandi nei contratti part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale che giustifica la immodificabilità dell’orario da parte datoriale per garantire la esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo che la scelta del particolare rapporto evidenzia come determinante per l’equilibrio contrattuale (vedi Cass. 16/4/1993 n. 4507)”.
Questo paradigma normativo, continua l’ordinanza in esame, “non è applicabile al contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un’eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell’imprenditore di organizzare l’attività lavorativa; in tal caso il diritto può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolare procedure, elementi questi che nella specie, per quanto sinora detto, sono insussistenti”.
In tale prospettiva, conclude la Suprema Corte, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito in relazione all’accertamento della violazione dei principi di correttezza e buona fede per non essere la dismissione delle lavorazioni alle quali era addetta la ricorrente, non erano in atto né erano imminenti, non appaiono condivisibili, considerata la incontroversa effettività della scelta di delocalizzazione delle lavorazioni, la mancata evidenza di alcuna situazione di discriminazione ai danni della lavoratrice o di lesione di diritti della predetta derivanti da specifici accordi contrattuali.
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