Pubblicato sul Sole24Ore – NT Lavoro – il 06/02/2023
Per la Cassazione il datore di lavoro è tenuto a conservare un atteggiamento neutrale in relazione ai comportamenti dei propri dipendenti tenuti nell’ambito dei conflitti tra organizzazioni sindacali
Il datore di lavoro è tenuto a conservare un atteggiamento neutrale in relazione ai comportamenti dei propri dipendenti tenuti nell’ambito dei conflitti tra organizzazioni sindacali. Così la Corte di cassazione, con la sentenza numero 2520 del 27 gennaio 2023.
Il caso trae origine da un drammatico evento, il suicidio di un dipendente, a seguito del quale veniva rinvenuta una sua bozza di e-mail che collegava la tragica decisione a una situazione di stress lavorativo.
Per questo motivo, un suo collega e membro delle Rsu presenti in azienda scriveva ad alcuni colleghi e rappresentanti sindacali sostenendo che il suicidio fosse stato causato o comunque istigato dalla decisione della società di avviare la mobilità e dalla decisione di quei membri delle Rsu che, a differenza sua, avevano sottoscritto l’accordo di chiusura della procedura di mobilità.
Una parte dei rappresentanti sindacali si rivolgeva alla direzione aziendale, ritenendosi offesi dalle accuse del collega, che quindi veniva sottoposto a procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per otto giorni.
La Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, annullava la sanzione disciplinare, riconducendo l’iniziativa del dipendente nell’alveo della dialettica sindacale e del diritto di critica e negando l’esistenza di un intento lesivo della reputazione della società da parte dell’autore della missiva, in quanto indirizzata ai colleghi sindacalisti.
Pertanto, la sanzione doveva considerarsi illegittima, non potendo il potere disciplinare datoriale esplicarsi in relazione a comportamenti estranei al rapporto di lavoro ed attinenti all’esercizio del diritto alla libertà sindacale, garantito costituzionalmente.
La società ricorreva in cassazione contestando la decisione della Corte d’Appello, per aver ignorato l’autorizzazione del dipendente alla divulgazione della missiva. Sotto diverso profilo, la società negava il carattere sindacale – e nei limiti della continenza sostanziale e formale – delle dichiarazioni del dipendente.
La cassazione, investita della questione, rigettava il ricorso della società, rilevando come l’espressione – “gira pure a chi ti pare” – contenuta all’interno della missiva, oltre ad essere estremamente generica e palesemente dettata da un mero impulso polemico, potesse solo autorizzarne l’inoltro alla società senza mutare la natura del messaggio in esame.
Proprio con riferimento alla natura delle dichiarazioni del dipendente, gli Ermellini confermano che si tratta di una pura dinamica sindacale tra rappresentanti sindacali con diverse valutazioni in merito alla decisione di sottoscrivere o meno un accordo in materia di mobilità, questione del tutto estranea alla reputazione aziendale.
Pertanto, la cassazione conferma i principi già espressi in materia di repressione di condotta antisindacale, ritenuti applicabili al caso di specie per identità di ratio, per cui il conflitto collettivo non è solo quello tra datore e lavoratore ma anche quello fra organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori, in relazione al quale il datore «è tenuto a conservare un atteggiamento di neutralità (non limitato al mero rispetto dell’art. 17 Stat. lav.) salvi solo gli eventuali interventi necessari per proteggere l’incolumità delle persone o l’integrità dell’azienda» e non può esercitare i suoi poteri disciplinari e gerarchico-direttivi, in quanto al medesimo attribuiti «ai soli fini del governo delle esigenze produttive dell’azienda (Cassazione 18176/2018)».
Il caso trae origine da un drammatico evento, il suicidio di un dipendente, a seguito del quale veniva rinvenuta una sua bozza di e-mail che collegava la tragica decisione a una situazione di stress lavorativo.
Per questo motivo, un suo collega e membro delle Rsu presenti in azienda scriveva ad alcuni colleghi e rappresentanti sindacali sostenendo che il suicidio fosse stato causato o comunque istigato dalla decisione della società di avviare la mobilità e dalla decisione di quei membri delle Rsu che, a differenza sua, avevano sottoscritto l’accordo di chiusura della procedura di mobilità.
Una parte dei rappresentanti sindacali si rivolgeva alla direzione aziendale, ritenendosi offesi dalle accuse del collega, che quindi veniva sottoposto a procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per otto giorni.
La Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, annullava la sanzione disciplinare, riconducendo l’iniziativa del dipendente nell’alveo della dialettica sindacale e del diritto di critica e negando l’esistenza di un intento lesivo della reputazione della società da parte dell’autore della missiva, in quanto indirizzata ai colleghi sindacalisti.
Pertanto, la sanzione doveva considerarsi illegittima, non potendo il potere disciplinare datoriale esplicarsi in relazione a comportamenti estranei al rapporto di lavoro ed attinenti all’esercizio del diritto alla libertà sindacale, garantito costituzionalmente.
La società ricorreva in cassazione contestando la decisione della Corte d’Appello, per aver ignorato l’autorizzazione del dipendente alla divulgazione della missiva. Sotto diverso profilo, la società negava il carattere sindacale – e nei limiti della continenza sostanziale e formale – delle dichiarazioni del dipendente.
La cassazione, investita della questione, rigettava il ricorso della società, rilevando come l’espressione – “gira pure a chi ti pare” – contenuta all’interno della missiva, oltre ad essere estremamente generica e palesemente dettata da un mero impulso polemico, potesse solo autorizzarne l’inoltro alla società senza mutare la natura del messaggio in esame.
Proprio con riferimento alla natura delle dichiarazioni del dipendente, gli Ermellini confermano che si tratta di una pura dinamica sindacale tra rappresentanti sindacali con diverse valutazioni in merito alla decisione di sottoscrivere o meno un accordo in materia di mobilità, questione del tutto estranea alla reputazione aziendale.
Pertanto, la cassazione conferma i principi già espressi in materia di repressione di condotta antisindacale, ritenuti applicabili al caso di specie per identità di ratio, per cui il conflitto collettivo non è solo quello tra datore e lavoratore ma anche quello fra organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori, in relazione al quale il datore «è tenuto a conservare un atteggiamento di neutralità (non limitato al mero rispetto dell’art. 17 Stat. lav.) salvi solo gli eventuali interventi necessari per proteggere l’incolumità delle persone o l’integrità dell’azienda» e non può esercitare i suoi poteri disciplinari e gerarchico-direttivi, in quanto al medesimo attribuiti «ai soli fini del governo delle esigenze produttive dell’azienda (Cassazione 18176/2018)».