Sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, il diritto di critica del lavoratore -sindacalista, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita, di tutela della persona umana, con la conseguenza che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare.
Così ha stabilito la Corte di cassazione, con l ’ordinanza n. 35922 del 22 dicembre 2023.
La vicenda
Il caso trae origine dall’impugnazione del licenziamento per giusta causa da parte di un dipendente, al quale era stato contestato dal datore di aver pubblicato, sulla sua bacheca Facebook, visibile a tutti: «…alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili…».
In particolare, il lavoratore, rappresentate sindacale, aveva pubblicato diversi post sul social in cui criticava apertamente ed aspramente, con termini offensivi e volgari, alcune presunte condotte tenute dal fondatore dell’azienda datrice ed invitava i colleghi ad iscriversi al sindacato di cui faceva parte, utilizzando toni aggressivi.
La Corte d’Appello, confermando la pronuncia del Tribunale, rigettava le pretese del ricorrente, in quanto le affermazioni oggetto di contestazione, destituite di fondamento e del tutto gratuite, superavano ampiamente i limiti della manifestazione della critica, erano altamente diffamatorie, e potevano essere considerate delle vere e proprie minacce.
Il lavoratore ricorreva in cassazione, sostenendo in particolare che dai post pubblicati non emergesse alcuna lesione della reputazione della società, ma solo una dura dialettica sindacale.
La linea della Cassazione.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso, rammentando che, in linea generale, al lavoratore è garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro. Tuttavia, ciò non gli consente di ledere sul piano morale l’immagine di quest’ultimo con riferimenti a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente tutelato dall’art. 21, incontra i limiti posti dall’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale.
Tali limiti al diritto di critica, prosegue la Corte, valgono anche per il lavoratore rappresentante sindacale, il quale agisce sotto una duplice veste: quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti con il datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo.
La Corte termina, sottolineando che nel caso di specie andava esclusa la legittimità delle critiche del lavoratore, in quanto, le espressioni usate e pubblicate sul profilo social accessibile a tutti, erano da considerarsi prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore.