Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 8 luglio 2021 n. 19522
È valido il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni e conseguente retribuzione inferiori a quelle per le quali sia stato assunto o che successivamente avesse acquisito, per la prevalenza dell’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c., purché vi sia il suo consenso e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato ii licenziamento in mancanza dell’accordo.
Questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con l’ordinanza n. 19522 dell’8 luglio 2021.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione rileva come «la Corte territoriale ha in fatto accertato la conclusione di un tale patto di demansionamento tra le parti nell’ambito di una crisi aziendale comportante l’esigenza di una riduzione del personale».
L’ordinanza in esame respinge poi anche il ricorso incidentale promosso dall’azienda confermando la sentenza della corte di merito laddove ha ritenuto provato il demansionamento, con totale inattività del lavoratore, in un periodo temporale antecedente al perfezionamento dell’accordo di dequalificazione, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei danni in relazione a tale periodo.
Sul punto, tuttavia, ed in relazione alla liquidazione del danno da dequalificazione, la Suprema Corte respinge l’ulteriore motivo di ricorso promosso dal lavoratore e relativo al mancato riconoscimento del danno morale, in quanto privo di adeguata prova.
Sul punto rileva la Suprema Corte: «in tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti (Corte di cassazione, S.U. 22 febbraio 2010, n. 4063; Corte di cassazione, 20 aprile 2018, n. 9901)».
E così «la relativa prova spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Corte di cassazione, 15 ottobre 2018, n. 25743; Corte di cassazione, 3 gennaio 2019, n. 21; Corte di cassazione, 2 ottobre 2019, n. 24585)».
Prova che, in base all’ordinanza in esame, non è stata offerta dal lavoratore.