Nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore non si può prescindere dall’osservanza del c.d. percorso trifasico.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 8 febbraio 2021, n. 2972
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un dipendente volto a conseguire l’inquadramento in un livello superiore rispetto a quello previsto contrattualmente, con annesse differenze retributive, respinto in primo grado e parzialmente accolto in sede d’appello.
La società datrice di lavoro impugnava la sentenza della Corte d’Appello sostenendo che la Corte di merito ha riconosciuto il diritto al superiore inquadramento rivendicato dal ricorrente senza tener conto dei principi invalsi nella giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui nell’interpretazione di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità.
La Suprema Corte rigettava il ricorso datoriale, sulla base delle seguenti motivazioni.
Secondo i Giudici di legittimità «occorre premettere, per un corretto iter motivazionale, che, momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore subordinato, è il cd. percorso trifasico».
Detto procedimento logico-giuridico, come ribadito negli anni dalla stessa Corte, «si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, essendo sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi».
Richiamando ancora i condivisi dicta della Suprema Corte (vedi Cass. 27/9/2016 n. 18943), gli Ermellini ricordano che l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.
Nello specifico, gli Ermellini evidenziano come la Corte di merito abbia addotto una serie di argomentazioni idonee a confermare la sussistenza degli elementi posti dalla ricorrente a fondamento del diritto azionato, che inducono a ritenere percorso il paradigma motivazionale enucleato dalla giurisprudenza di legittimità ai fini qui considerati.
In particolare, per i Giudici «la Corte distrettuale ha innanzitutto fatto richiamo al livello VI in godimento, riservato ai lavoratori che svolgono mansioni comportanti facoltà di decisione e autonomia operativa limitate agli obiettivi di appartenenza. Ha inoltre rimarcato come dalle acquisizioni probatorie, anche di natura documentale, si fosse imposta l’evidenza che la ricorrente aveva adempiuto alle mansioni a lei ascritte in totale autonomia, selezionando gli aspetti da privilegiare in relazione alle questioni da risolvere. La Corte ha inoltre considerato la varietà delle materie in relazione alle quali era richiesta la consulenza della lavoratrice e la diretta interlocuzione della stessa con la direzione sulle descritte rilevanti tematiche. Ha quindi, congruamente concluso come non aderente alle previsioni del c.c.n.l. di settore l’attribuzione all’appellante del livello VI, considerato che i contenuti di ricerca e di studio elaborati dalla dipendente erano di fatto, integralmente recepiti dalla direzione, così realizzandosi quel requisito coessenziale alla qualifica del VIII, del potere di incidere sulle scelte aziendali proprio della attività svolta.
In virtù di tutto quanto sopra, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso datoriale in quanto «la struttura logico-giuridica che innerva l’impugnata sentenza, risponde dunque, ai canoni che definiscono una corretta sussunzione della fattispecie nell’archetipo normativo di riferimento, non assumendo valenza decisiva la denunciata omissione di ogni riferimento da parte della Corte di merito, ai profili professionali corrispondenti alla declaratoria contrattuale relativa al livello rivendicato, considerata la natura esemplificativa degli stessi».