Pubblicato su Sole24Ore – Nt Lavoro – il 27/05/2024
Costituisce discriminazione indiretta l’applicazione del comporto ordinario al dipendente disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili converte il criterio, apparentemente neutro, del computo del comporto, in una prassi discriminatoria nei confronti di un particolare gruppo sociale protetto.
Così la Corte di cassazione, con la sentenza 11731 del 2 maggio 2024.
Il caso trae origine dal licenziamento di un dipendente in situazione di handicap derivante da una grave patologia cronica, per superamento del periodo di comporto a seguito di un’assenza di 458 giorni, a fronte di un comporto di 15 mesi nell’arco di 30, previsto dall’articolo 21 del Ccnl Porti.
La Corte d’appello di Firenze, confermando la decisione del Tribunale, dichiarava il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, ritenendo la citata disposizione del ccnl insufficiente a tutelare la condizione di rischio del lavoratore svantaggiato ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lett. b), della Direttiva 200/78/CE, trattandosi di una disposizione che prevede un arco temporale unico e indifferenziato anche per i periodi di malattia legati alla disabilità e un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita, applicabile a tutti i lavoratori.
Sotto diverso profilo, la Corte territoriale ha escluso la carenza dell’elemento soggettivo della società, attesa la piena consapevolezza della malattia del lavoratore e non avendo verificato la riconducibilità delle assenze alla suddetta malattia.
La società ricorreva in cassazione sostenendo che era stata ignorata la disciplina complessiva del Ccnl Porti, che prevede ulteriori periodi di aspettativa non retribuita per i dipendenti con invalidità superiore al 50%, mai richiesti dal lavoratore.
Sotto diverso profilo, la società nega la sussistenza dell’elemento soggettivo, rilevando di aver appreso solo in giudizio della malattia del dipendente il quale, in costanza di rapporto, aveva fornito certificati medici privi di riferimenti alla malattia e neppure segnalanti le caselle che indicano le patologie gravi che richiedono terapie salvavita o lo stato patologico legato all’invalidità riconosciuta.
La Corte di cassazione, in via di premessa, ricorda la ratio dell’istituto del comporto, riconducibile al punto di equilibrio tra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenza per ristabilirsi dopo un infortunio o una malattia e l’interesse datoriale a non doversi fare carico per un tempo indefinito delle conseguenze negative di tali assenze sull’organizzazione aziendale.
Ciò premesso, la Suprema Corte richiama il proprio orientamento per cui costituisce discriminazione indiretta l’applicazione del comporto ordinario al dipendente disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili converte il criterio, apparentemente neutro, del computo del comporto in una prassi discriminatoria nei confronti di un particolare gruppo sociale protetto (Cass. 9095/2023).
Per evitare tali discriminazioni e garantire l’effettiva parità di trattamento delle persone con disabilità, il legislatore ha imposto a datori pubblici e privati, con l’articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003 l’adozione di ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a garantire il contemperamento dell’interesse del dipendente disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica e di quello datoriale a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
Tuttavia, l’adozione degli accomodamenti ragionevoli presuppone l’onere del lavoratore di dimostrare le limitazioni derivanti dalle proprie menomazioni fisiche, mentali o psichiche, per permettere al datore di attivarsi.