Pubblicato sul Sole24Ore – NT Lavoro – il 11/04/2023
L’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile rappresenta una discriminazione indiretta, perché il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua condizione. Così la Corte di cassazione, con l’ordinanza 9095/2023 del 31 marzo.
Il caso trae origine dal licenziamento intimato a un dipendente disabile per superamento del periodo di comporto «breve» previsto dal Ccnl Federambiente applicato al rapporto di lavoro, pari a 375 giorni negli ultimi 3 anni, estesi a 545 giorni nel caso di un unico evento morboso continuativo (cosiddetto comporto «prolungato»). Per il Tribunale di Milano, il licenziamento rappresentava una discriminazione diretta correlata alla particolare condizione del dipendente licenziato, dovendosi presumere che tali assenze fossero riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore «per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute».
La Corte d’appello confermava la pronuncia del Tribunale ravvisando, tuttavia, una discriminazione indiretta consistita nell’avere il datore applicato, pur in presenza di un grave quadro patologico, le disposizioni del contratto collettivo nazionale sul comporto senza distinguere le assenze dovute a malattia da quelle giustificate dalle patologie correlate alla disabilità del lavoratore, in contrasto con i principi espressi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza C-270/16 del 18 giugno 2018. Per la Corte d’appello, la disposizione del Ccnl, in quanto applicabile in modo identico alle persone disabili e alle persone non disabili che sono state assenti dal lavoro, pur se tende a un legittimo contemperamento degli interessi delle parti del rapporto di lavoro, eccede quanto necessario per realizzare tale finalità, trascurando la condizione di disabile e considerando ai fini del comporto anche i giorni di assenza dovuti a patologia collegata alla disabilità del dipendente.
La società ricorreva in Cassazione, ritenendo che la disposizione pattizia, complessivamente interpretata secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, non contiene alcuna previsione discriminatoria, nel rispetto del principio di trattamento del disabile con riferimento alle condizioni del suo licenziamento. La Suprema corte, investita della questione, ha confermato la sussistenza di una discriminazione indiretta, ma sulla base di una diversa motivazione.
In particolare, richiamando la giurisprudenza comunitaria in materia di tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità, la Corte ha osservato che un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap, con la conseguenza che un istituto che preveda conseguenze negative legate alla durata dell’assenza per malattia è idoneo a svantaggiare maggiormente i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sull’handicap in base all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.
Pertanto, secondo la Corte di legittimità, una norma che fissa limiti massimi di durata delle assenze per malattia identici per lavoratori disabili e non, di fatto svantaggia i primi e quindi comporta una disparità di trattamento basata sulla disabilità.Ne deriva che l’applicazione del periodo di comporto breve ai lavoratori disabili costituisce una condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, pertanto, vietata. Ciò posto, prosegue la Corte, non è illegittima la fissazione di un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile. Se finalizzata a combattere il fenomeno dell’assenteismo per eccessiva morbilità, infatti, tale scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali rappresenterebbe una finalità legittima, che deve tuttavia essere perseguita con mezzi appropriati e necessari, quindi proporzionati, che tengano in considerazione il rischio aggiuntivo di un lavoratore disabile di essere assente da lavoro per malattia.