Corte di Cassazione, sezione lavoro, 7 febbraio 2022, n. 3824 e 3825
Con le sentenze n. 3824 e n. 3825 del 7 febbraio 2022, la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento respingendo i ricorsi di Air Italy contro la reintegra dei dipendenti licenziati da Meridiana Fly.
Per la Suprema Corte, infatti, i giudici di merito avevano correttamente ritenuto che gli elementi di collegamento fra Meridiana Fly S.p.A. (poi divenuta Air Italy S.p.a.) e Air Italy S.p.a. (poi divenuta Air Italy Flee Management Company S.p.a.) avessero travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica della sostanziale unicità soggettiva.
L’accertamento fattuale, prosegue la Suprema Corte, in merito alla compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a distinte società, implica la riferibilità della prestazione di lavoro ad un soggetto sostanzialmente unitario.
E così “conseguenza ineludibile della configurabilità in concreto di un unico soggetto datoriale è la necessità che la procedura collettiva attivata da Meridiana Fly coinvolgesse i lavoratori in organico non solo alla detta società ma anche alla società Air Italy, cioè tutti i lavoratori dell’unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle due società, non essendo ritualmente dedotti e comprovati i presupposti per la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare al solo organico di Meridiana Fly”.
L’accertamento della sostanziale unitarietà della struttura imprenditoriale esclude inoltre, prosegue la Suprema Corte, che possa assumere rilevanza decisiva la verifica circa la concreta, effettiva, utilizzazione da parte di entrambe le società delle prestazioni rese dal singolo lavoratore, la cui attività deve comunque ritenersi prestata nell’interesse – indifferenziato – delle due società solo formalmente distinte.
La Corte di Cassazione si pronuncia inoltre in merito ai criteri di determinazione dell’indennità risarcitoria ex art 18, comma 4, l. n.300 del 1970.
Sul punto la Suprema Corte rileva, innanzitutto, come è “onere, del datore di lavoro che contesti la pretesa risarcitoria del lavoratore illegittimamente licenziato, di provare, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, l’aliunde perceptum o percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. n. 22679 del 2018; n. 9616 del 2015; n. 23226 del 2010)”.
Quanto, poi, alla determinazione dell’indennità secondo la Corte di Cassazione “la Corte di merito si è attenuta al disposto normativo che descrive con precisione la sequenza volta a determinare l’indennità risarcitoria, attraverso il calcolo della retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore per l’intero periodo di estromissione, e la successiva detrazione, dall’importo così ottenuto, dell’aliunde perceptum e percipiendum; per contro, il tetto massimo previsto per l’indennità risarcitoria, come pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, rappresenta un limite che il legislatore ha posto al quantum del risarcimento dovuto dal datore di lavoro rispetto all’importo risultante dalla differenza tra la retribuzione spettante per tutto il periodo di estromissione e l’aliunde perceptum o percipiendi, ove superiore al detto tetto massimo”.
La Suprema Corte precisa, infine, come “la compensatio lucri cum damno, alla quale va ricondotto il principio della detrazione dell’aliunde perceptum o percipiendi, trova applicazione solo se – e nei limiti in cui – sia il danno (damnum) che l’incremento patrimoniale o, comunque, il vantaggio (lucrum) siano conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in sé l’idoneità a produrre entrambi gli effetti (v. Cass. n. 7453 del 2005 cit.). Si è, ad esempio, affermato che il compenso percepito dal lavoratore, per attività di lavoro subordinato o autonomo nel periodo di estromissione, comporti la corrispondente riduzione del risarcimento del danno per licenziamento illegittimo solo se – e nei limiti in cui – quel lavoro, essendo incompatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento, supponga, appunto, l’intimazione del licenziamento medesimo (v. Cass. n. 17051 del 2021; n. 7453 del 2005 cit.; n. 6439 del 1995)”.