Per la corte Costituzionale è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 18, settimo comma, secondo periodo, L. n. 300/1970, come modificato dalla riforma Fornero
Corte Costituzionale, 1° aprile 2021, sentenza n. 59
Con la sentenza n. 59 depositata il 1° aprile 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, L. n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), L. n. 92/2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “possa” e non “debba” applicare la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18, (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un’indennità non superiore a 12 mensilità, detratto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum).
Nella fattispecie il Tribunale di Ravenna, chiamato a decidere su un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sollevava la questione di costituzionalità in ordine all’art. 18 della L. 300/1970 – così come novellato dalla c.d. riforma Fornero – nella parte in cui prevede, in caso di accertamento dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del recesso, la discrezionalità del giudice nella scelta tra la tutela reintegratoria e quella esclusivamente risarcitoria.
In particolare, secondo il Giudice rimettente, contrasterebbe con gli artt. 3, 24, 41 e 111 della Costituzione la previsione di un regime di tutela oggettivamente difforme, a fronte di una medesima insussistenza del fatto, in caso di licenziamento per ragioni economiche e per motivi disciplinari (ipotesi quest’ultima per cui si applica obbligatoriamente la tutela reale c.d. “attenuata”).
Per la Corte Costituzionale, la questione è fondata.
Il Giudice delle Leggi rileva dapprima come, in relazione al licenziamento per g.m.o., «il nuovo regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità». E così «Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471)».
Tale requisito, prosegue la Corte Costituzionale, «si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 novembre 2019, n. 29102)».
E così, affinché possa operare il rimedio della reintegrazione, secondo il Giudice delle Leggi «è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159)», in quanto, pur nel loro autonomo spazio operativo, tali presupposti «si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio».