Art. 18: la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare da parte del datore di lavoro
Corte di Cassazione, ordinanza n. 11701 del 17 giugno 2020
Con l’ordinanza n. 11701 del 17 giugno 2020, la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’applicabilità della tutela reintegratoria in caso di licenziamento per giusta causa irrogato per fatti ritenuti non meritevoli di sanzione espulsiva, benché sussistenti, né espressamente previsti come punibili con sanzione conservativa dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.
Nel caso di specie il lavoratore, con mansioni di responsabile del Servizio Contabilità e Bilancio, era stato licenziato per giusta causa per aver operato senza la necessaria diligenza nell’attività di contabilizzazione.
I giudici di merito, dopo aver accertato e dichiarato l’illegittimità del licenziamento sul presupposto che la condotta contestata, seppur sussistente, «non era connotata da un livello di gravità ed importanza tali da giustificare la sanzione espulsiva», avevano disposto la reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18 comma 4 St. Lav., nonostante il fatto contestato non fosse espressamente previsto come punibile con una sanzione conservativa dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.
Secondo i giudici di merito, infatti, ai fini dell’applicazione della sanzione della reintegrazione non è necessario «che la norma collettiva prenda in considerazione lo specifico comportamento posto in essere dal dipendente» risultando applicabile anche «laddove dovesse esistere una ben precisa fattispecie disciplinare, ancorché di carattere generale o “di chiusura”, nella quale il comportamento contestato (obiettivamente esistente e, benché in misura minore di quanto ritenuto dalla parte datoriale, disciplinarmente illecito) ben potrebbe essere incasellato».
Sulla base di tale conclusione, i giudici di merito avevano disposto la reintegrazione del lavoratore in virtù di una norma di chiusura contenuta nel CCNL che prevedeva l’irrogazione della sanzione conservativa per «quelle mancanze le quali, anche in considerazione delle circostanze speciali che le hanno accompagnate, non siano così gravi da rendere applicabile una maggiore punizione».
Con ricorso promosso avanti alla Suprema Corte, il datore di lavoro impugnava tale pronuncia «per avere, in sintesi, riconosciuto la tutela ex articolo 18, comma 4 cit., pur in difetto di tipizzazione nelle previsioni collettive della condotta oggetto di addebito».
La Cassazione, pur confermando l’illegittimità del licenziamento rilevando la non proporzionalità della sanzione rispetto alle condotte contestate, ha accolto il motivo di ricorso sopra richiamato, riformando sul punto integralmente le conclusioni dei giudici di merito.
Secondo la Suprema Corte, infatti, la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato comporta l’applicazione della tutela reintegratoria «solo nell’ipotesi in cui la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa».
Al di fuori di tale ipotesi “la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l’articolo 18, comma 5, prevede la tutela indennitaria c.d. forte (Cass. 05/12/2019, n. 31839; Cass. 19/07/2019, n. 19578; Cass. 14/12/2018 n. 32500, in motivazione, Cass. 12/10/2018, 25534; Cass. 25/05/ 2017, n. 13178, in motivazione)».
Tale conclusione, continua la Corte, si fonda «sul presupposto del carattere eccezionale che la tutela reintegratoria assume nel contesto del novellato articolo 18» e «in applicazione del principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente».
Secondo gli Ermellini, inoltre, la limitazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi di tipizzazione della condotta punita con sanzione conservativa dalla previsione collettiva è coerente sia «con la lettera dell’articolo 18, comma 4, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l’eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria» ma anche «dal punto di vista sistematico, con la chiara ratio» del regime sanzionatorio introdotto nel 2012.
Sotto tale ultimo aspetto, infatti, la Suprema Corte sostiene che «la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica, a sua volta, una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, dell’illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore (Cass. n. 19578/2019 cit., Cass. 09/05/2019, n. 12365)».