La ragione inerente all’attività produttiva di cui all’art. 3 legge n. 604 del 1966 è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali.
Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 1514 del 25 gennaio 2021
Il caso trae origine dalla sentenza della Corte d’Appello che aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo da una Congregazione religiosa ad una propria dipendente in conseguenza dell’andamento economico negativo delle strutture gestite dalla Congregazione.
In particolare, l’andamento negativo aveva imposto la riduzione dei costi e la rimodulazione dell’organizzazione di lavoro, con conseguente soppressione del posto di lavoro della dipendente – che rappresentava per il datore di lavoro il costo più elevato – ed attribuzione delle mansioni ad una religiosa (che prestava la sua opera senza corresponsione di retribuzione).
La lavoratrice impugnava la sentenza rilevando l’illegittimità del licenziamento per violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966 nonché la sua nullità stante la natura ritorsiva del provvedimento.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, respinge il ricorso e conferma integralmente la sentenza della corte di merito.
Quanto alla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la Corte di Cassazione richiama il proprio orientamento secondo cui «la ragione inerente all’attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali».
E pertanto «la modifica della struttura organizzativa che legittima l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività».
Con specifico riferimento all’andamento economico, la sentenza in esame ricorda che «non costituisce un presupposto fattuale che il datore debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa».
Per la legittimità del recesso, inoltre, è sufficiente «che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità».
Secondo gli Ermellini, nel caso di specie «Il riscontro di effettività ha correttamente riguardato la scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dalla lavoratrice (Responsabile della struttura) e la verifica del nesso causale tra soppressione del posto e le ragioni dell’organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso (adibizione di una religiosa appartenente alla Comunità con conseguente soppressione di costi del lavoro e consistente risparmi annuali al fine di ripianare una situazione economica compromessa)».
Da qui la conferma della sentenza della Corte d’Appello.
La Corte di Cassazione, infine, sulla base di tali conclusioni respinge anche la pretesa di ritorsività del licenziamento.
Sul punto la Corte ribadisce che «in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 cod.civ. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale». E così «il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale».
Nel caso in esame, conclude la Suprema Corte, la Corte distrettuale si è conformata ai principi di diritto espressi da questa Corte e, una volta accertata la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso, ha correttamente ritenuto superfluo indagarne il carattere ritorsivo in quanto mancante il requisito determinante dell’efficacia determinativa esclusiva.