La legittimità del patto di prova di durata superiore a quella prevista dal CCNL
Corte di cassazione, sez. lav., ordinanza 26 maggio 2020, n. 9789
Con l’ordinanza del 26 maggio 2020, n. 9789 la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema della legittimità della clausola del contratto individuale che preveda un periodo di prova di durata superiore rispetto a quella massima stabilita dal CCNL, nel limite di sei mesi ex art. 10 L. n. 604/1966.
Nel caso di specie, il contratto individuale prevedeva un periodo di prova di sei mesi laddove il CCNL applicato al rapporto di lavoro stabiliva, per livello di inquadramento e categoria affidata del ricorrente, una durata massima di 5 mesi.
La Corte di Cassazione, richiamando un proprio orientamento (Cass. Civ., sez. lav. 19 giugno 2000, n. 8295), ha riaffermato il principio secondo cui il contratto individuale può stabilire – sempre nel rispetto del limite massimo di 6 mesi – un periodo di prova di durata maggiore rispetto a quella massima prevista dal CCNL applicato al rapporto di lavoro, soltanto quando «la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi».
Precisando che il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro «a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova».
A tal proposito, gli Ermellini evidenziano come il patto di prova sia relegato nel campo delle ipotesi eccezionali, come dimostrato dal fatto che il legislatore ne pretenda la forma scritta ad substantiam: «L’onere della forma scritta è stato quindi imposto a tutela del contraente più debole in un regime di sfavore per il patto di prova, considerato come eccezionale rispetto alle condizioni protettive assicurate dal contratto a tempo indeterminato specialmente per quanto riguarda il recesso».
E così, prosegue la sentenza in commento «lo sfavore del legislatore verso il patto di prova trova pieno conforto nell’orientamento di questa Corte secondo cui il lavoratore ha interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale (Cass. 5 marzo 1982 n. 1354; Cass. 25 ottobre 1993 n. 10587)».
Secondo i Giudici da ciò discende, in linea di principio «la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali».
La Corte di Cassazione, pertanto, condivide e ribadisce tale orientamento «in quanto la clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, secondo comma, cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro».