L’oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì in rapporto all’oggettiva situazione di contrasto
Corte di Cassazione Sez. Lav. 23 ottobre 2020, n. 23385
Con la sentenza in epigrafe gli Ermellini offrono un’ampia disamina sui principi in tema di interpretazione degli atti di abdicativi e conciliativi riguardanti i reciproci diritti derivanti dal rapporto di lavoro.
Il caso trae origine dal ricorso di un lavoratore che, assunto con qualifica dirigenziale e ruolo di Direttore Generale, veniva altresì nominato Amministratore Delegato senza tuttavia ricevere alcun compenso aggiuntivo per questa carica.
Il rapporto di lavoro cessava il 31/12/1998 in virtù di un accordo transattivo intervenuto tra le parti tre mesi prima, e successivamente il lavoratore agiva per vedersi riconoscere il compenso per la carica di AD.
Il ricorso veniva rigettato sia in primo grado che dalla Corte d’Appello, rilevato che anche la questione del compenso era stata conciliata con il citato accordo transattivo.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione, lamentando l’immotivata svalutazione, da parte dei giudici di merito, degli elementi letterali risultanti dall’accordo transattivo e la conseguente violazione del principio della necessaria interpretazione preliminare dell’atto negoziale e del principio del gradualismo.
In particolare, il lavoratore rilevava come l’accordo non facesse alcun riferimento alla carica di AD, riferendosi al contrario al solo rapporto di lavoro dirigenziale.
I Giudici della Corte di Cassazione hanno rigettato il ricorso, rilevando come «in materia di rinunzie e transazioni, con riguardo alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, la dichiarazione del lavoratore può assumere il suddetto valore sempre che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (Cass. n. 10056 del 1991; Cass. n. 1657 del 2008)».
Secondo i Giudici, l’oggetto del negozio transattivo non va identificato in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì «in rapporto all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno iniziato a comporre attraverso reciproche concessioni in relazione alle posizioni assunte dalle stesse non solo nella lite in atto ma anche in vista di una controversia che possa insorgere tra loro e che esse intendono prevenire e il giudice di merito, al fine di indagare sulla portata e sul contenuto transattivo di una scrittura negoziale, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell’accordo, ancorché non richiamati dal documento, senza che ciò comporti violazione del principio in base al quale la transazione deve essere provata per iscritto (cfr. Cass. n. 729 del 2003; Cass. n. 9120 del 2015)».
In tema di interpretazione generale dei contratti, poi, «qualora le espressioni letterali utilizzate non siano sufficienti per ricostruire la comune volontà delle parti, occorre avere riguardo all’intento comune che esse hanno perseguito».
Con particolare riferimento all’interpretazione del contratto di transazione, i Giudici ricordano che «per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzi tutto se le parti, mediante l’accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all’incertus litis eventus, senza tuttavia che sia perciò necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, né che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa».
Infine, in merito ai requisiti dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum, per la Corte «essi non sono da rapportare agli effettivi diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni e, pertanto, non è necessaria l’esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni (cfr. Cass. n. 7548 del 2003)».