La nozione di insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro
Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 13411 del 1° luglio 2020
La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle medesime disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale.
Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13411 del 1° luglio 2020.
Nel caso di specie, le sentenze di merito si erano pronunciate sulla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, al quale era stata contestata una condotta di insubordinazione e di violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega.
Il lavoratore aveva, così, proposto ricorso in Cassazione lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in considerazione dell’assenza di un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata. Non sussisteva nemmeno, sempre secondo la tesi del lavoratore ricorrente, un’infrazione disciplinare, in quanto il diverbio si era verificato a giornata lavorativa ormai conclusa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, rigetta il ricorso e conferma la decisione della Corte di merito.
Secondo la Suprema Corte, infatti «il concetto di “insubordinazione” va determinato anche alla stregua dell’accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio giuridico ed in quello corrente».
In merito alla nozione di insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, la Corte ricorda che «non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (cfr. Cass. n. 3521 del 1984 e n.5804 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 7795 del 2017)».
Nel caso di specie, inoltre, la Suprema Corte ha rilevato come «la condotta oggetto dell’addebito disciplinare seppure realizzatasi al di fuori dell’orario di lavoro, era stata tenuta dal lavoratore in locali aziendali e si era rivolta in danno di una dipendente che, nel particolare contesto organizzativo, era preposta a rappresentare l’azienda in veste di responsabile e la vicenda aveva riguardato aspetti che afferivano comunque all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l’uso di beni aziendali».
Per tali motivi, conclude la Corte di cassazione, non è pertinente il richiamo della giurisprudenza relativa a comportamenti extralavorativi tenuti dal dipendente, «dovendosi – ad ogni buon conto – precisare che anche il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare, in quanto gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 cod. civ. relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro».
La Corte respinge, infine, anche l’ulteriore motivo di ricorso ossia la tesi secondo cui la condotta tenuta dal lavoratore sarebbe consistita in un diverbio privo di vie di fatto e quindi come tale non rientrante nell’infrazione per la quale il CCNL applicato prevedeva il licenziamento per giusta causa.
Sul punto, la Suprema Corte rileva come la scala valoriale recepita nel CCNL costituisca uno dei parametri cui fare riferimento ai fini del giudizio sussuntivo della fattispecie concreta nella clausola generale di cui all’art. 2119 cod. civ. ma ciò non toglie, tuttavia, che«anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. Cass. nn. 9396 e 28492 del 2018, n. 14063 del 2019, nonché Cass. n. 8826 del 2017, n. 27004 del 2018 e n. 19023 del 2019)».
Infine, con riferimento alla valutazione di proporzionalità della sanzione, secondo la Suprema Corte l’indagine giudiziale deve essere diretta non solo a verificare se il fatto addebitato sia o meno riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento «ma anche, attraverso una valutazione in concreto, se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (v. Cass. 18195 del 2019)».